Come tutte le voci che rimbalzano in Transatlantico (finalmente riaperto), anche questa si riproduce di divanetto in divanetto, senza sapere bene chi ne è stato il padre. Ma già il fatto che persista da giorni, contendendo la palma della chiacchiera più discussa a quella per cui Silvio Berlusconi avrebbe già i voti per andare al Colle, la fa degna di essere riportata. Eccola, allora:
Mario Draghi, secondo questo scenario, sarebbe pronto a dimettersi non appena votata in via definitiva la manovra. Non tanto perché i partiti dell’attuale maggioranza incominciano a scalpitare un po’ troppo, incrinando quell’unità nazionale alla base dell’esecutivo. Le ragioni di questo precoce addio nascerebbero da una motivazione ufficiale e una ufficiosa. La prima è che, si dice, a Palazzo Chigi considerano la missione di Draghi conclusa con la manovra. Il Pnrr è impostato e si punta a chiudere tutti i progetti entro la fine dell’anno. SCADENZE:
Anche il giro nelle regioni messo in programma da Draghi e dal suo sottosegretario di fiducia, Roberto Garofoli, per aiutare gli enti locali a concretizzare i progetti, ha come termine l’anno in corso. «Se parli con qualcuno di loro, ti dicono che si deve chiudere tutto entro il 2021. Parlano come se il loro compito finisse il 31 dicembre», chiosa un attento osservatore dem. La politica economica del Paese è impostata con questa legge di bilancio almeno per i prossimi due anni. La campagna vaccinale ha raggiunto un’ottima copertura e, con le misure che il governo prenderà per i prossimi mesi, è destinata ad aumentare. Il Paese sta ripartendo, come dimostrano i dati sulla crescita, migliori del previsto. Dunque le due emergenze per cui Draghi era stato chiamato, economica e sanitaria, sono in via di rientro. CRISI LAMPO?
A questo punto, si dice, non sarebbe assurdo se il premier annunciasse, una volta approvata la manovra, che il suo lavoro è compiuto. E che lascia Palazzo Chigi. Cosa accadrebbe dopo? Sergio Mattarella, ancora pienamente in carica, aprirebbe una crisi lampo e darebbe a un altro (Daniele Franco o Marta Cartabia) l’incarico di formare il governo. E sarebbe un esecutivo-copia di quello attuale. Nessun cambio, se non ritocchi chirurgici. Draghi, invece, libero dall’incarico dell’esecutivo, diventerebbe il candidato naturale per succedere a Mattarella. E sarebbe eletto da una grandissima maggioranza. Chi potrebbe non votarlo? Lo scenario prevede una condizione obbligata: un accordo di ferro tra gli attuali azionisti della maggioranza draghiana. In nome della stabilità.
Detto in altro modo: si garantisce ai parlamentari che la legislatura terminerà a scadenza naturale, si tranquillizzano imprenditori, Unione europea e cancellerie europee sul fatto che l’era Draghi continuerà per altri sette anni, vigilando sulla realizzazione del Pnrr. Non da Palazzo Chigi, ma dal Colle. Intanto, però, a Palazzo Chigi ci sarà un uomo (o una donna) di fiducia dell’ex presidente della Bce. Come nello schema Giorgetti. Quindi, non ci saranno scossoni. Insomma, è un quadro che, per dirla con chine parla, «assicura stabilità e conserva la regia di questo delicato passaggio nelle mani di Mattarella e Draghi». L’ipotesi, però, non convince tutti. Innanzitutto non il centrodestra, a partire dalla Lega.
Ma anche nel M5S e perfino nel Pd in tanti la guardano con scetticismo. Soprattutto perché un cambio a Palazzo Chigi, sia pure preparato da un accordo, è sempre un fattore di instabilità. Se abbatti un muro portante, chi ti dice che la casa non crolli? Siamo sicuri che l’impalcatura reggerebbe? Chi è disposto a rischiare l’incerto, rinunciando al certo? Ieri, intanto, al tavolo con i sindacati sulle pensioni, come riferisce il segretario Uil Pierpaolo Bombardieri, Draghi avrebbe detto che «a marzo ci sarà ancora lui». Una battuta destinata a far discutere. La verità è che nessuno, per ora, ha una soluzione in tasca. Né è in grado di garantire passaggi indolori. C’è solo una certezza: nessuno vuole andare al voto anticipato.