Passerà alla storia come la tassa sulla pipì, ovvero la facoltà prevista per legge con la quale ristoranti e bar di Roma e di tutto il Lazio, potranno chiedere un compenso minimo per far utilizzare i servizi igienici anche a chi non è cliente. Basterà mettere un cartello che indica il costo per usufruire nei bagni.
La rivoluzione della pipì a pagamento, una specie di tassa sui deboli di prostata, oppure un dispetto ai turisti in un città come Roma, è contenuta nella proposta di legge regionale numero 37 del 20 giugno 2018, ovvero il testo unico del Commercio, quel compendio di bizantinismi, liberalizzazioni minimali e orpelli che regola la vita di chi fa negozio, dai centri commerciali alle botteghe storiche e che va in completa antitesi con lo slogan della semplificazione.
Il trucco con il quale la Regione dovrebbe approvare la possibilità di far pagare i bagni degli esercizi pubblici è contenuto nel comma 6 dell’articolo 75, nel quale si norma l’obbligo di pubblicizzazione dei prezzi per i clienti. E qui, per l’ennesima volta il legislatore si schiera contro i consumatori, proteggendo soprattutto la carta dei vini da sguardi indiscreti. Se dall’antipasto al dessert i i prezzi devono essere pubblicizzato fuori dal locale, il vino resta invece un mistero o una sorpresa che il cliente conoscerà solo quando sarà entrato. E si arriva così al comma 6, quello della pipì. Scrive la Commissione regionale che si è peritata di lavorare più di 15 mesi per riordinare le leggi sul commercio: “Qualora il servizio igienico, per i soggetti diversi dalla clientela, sia messo a pagamento, il prezzo dello stesso deve essere reso ben noto attraverso l’apposizione di idoneo cartello”.
Superiamo lo stile letterario della legge che chiede una differenza tra “noto” e “ben noto” che non si capisce quale sia, e persino l’idoneità del cartello non si sa in base a quali criteri, ciò che resta è un pasticcio di dimensioni apocalittiche per chi ha un bar o un ristorante e per i clienti. La traduzione della legge è chiara: bar e ristoranti ma pure pizzerie a taglio o friggitorie, se vogliono, possono far pagare a chi non è cliente l’accesso al bagno, basta che mettano un cartello. E quanto costerà fare la pipì in un bar o in ristorante? E’ un mistero. Forse 50 cent in periferia e 2 euro nel centro storico? Oppure? Di fatto siamo di fronte a una liberalizzazione urinaria per la quale non c’è un prezzo indicato, tantomeno una sanzione per chi non rispetta la legge. E così la facoltà di far pagare si traduce in un caos dei servizi igienici.
Ma c’è di più e alla Regione Lazio non se ne sono accorti. Mentre la solerte Commissione riceveva e ascoltava istanze di lobbisti, associazione varie, baristi, camerieri, commercialisti (anche macchinisti e fuochisti per citare Totò) ma anche i sindacati e faceva scorrere il tempo, il Comune di Roma di Virginia Raggi e del Movimento Cinque Stelle varava con la delibera 135 del 5 luglio scorso, il Nuovo regolamento di polizia urbana con il quale scriveva a chiare lettere:
“È fatto obbligo agli esercenti degli esercizi pubblici di consentire l’utilizzo dei servizi igienici a chiunque ne faccia richiesta”. L’ha scritto la maggioranza a 5 Stelle di Roma, mentre i colleghi della Regione Lazio introducevano la tassa sulla pipì. I politici non solo non si parlano ma sembra che si facciano i dispetti. L’iter della proposta è chiaro: approvata all’unanimità dalla Commissione, ora andrà al Consiglio Regionale per il voto definito. Se nulla muta, la pipì potrà diventare anche un bene di lusso.