OGNI ANNO 4MILA NUOVI SIEROPOSITIVI. IN ITALIA L’HIV SI TRASMETTE ATTRAVERSO L’IGNORANZA.

di redazione

OGNI ANNO 4MILA NUOVI SIEROPOSITIVI. IN ITALIA L’HIV SI TRASMETTE ATTRAVERSO L’IGNORANZA.

| domenica 13 Gennaio 2019 - 18:06

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OGNI ANNO 4MILA NUOVI SIEROPOSITIVI. IN ITALIA L’HIV SI TRASMETTE ATTRAVERSO L’IGNORANZA.

Forse ricorderete una vicenda di cronaca che ha fatto scalpore qualche tempo fa: la storia di Valentino Talluto, il trentaquattrenne sieropositivo di Acilia etichettato dai media come “l’untore”, perché avrebbe volontariamente trasmesso il virus dell’Hiv a più di trenta ragazze.

Quelle che hanno testimoniato contro di lui nel corso del processo lo ricordano come una persona gentile ed educata, il classico bravo ragazzo. Bravo è stato sicuramente a tacere, intrattenendo rapporti con più donne contemporaneamente senza farsi scoprire, almeno fino a quando una di loro, avuta notizia della sua sieropositività, ha deciso di chiedergli un test dell’Hiv: lui si è procurato un certificato medico falso, e da lì sono partite la denuncia e la nota vicenda.

Da un numero iniziale di sei ragazze contagiate, gli inquirenti sono arrivati a rintracciare una trentina di persone che avevano avuto rapporti sessuali con Valentino ed erano rimaste infettate. Valentino usava il preservativo in modo irregolare e sembrerebbe casuale, su ammissione delle stesse ragazze ascoltate in udienza: a volte sì e a volte no, con alcune lo indossava, con altre mai, perché diceva di essere allergico o perché “era più bello senza”. La prova scientifica lo schiaccia: il ceppo virale presente nel corpo di Talluto è lo stesso delle ragazze rimaste contagiate.

Valentino sapeva di essere sieropositivo almeno dal 2006 e ha probabilmente contratto l’Hiv attraverso un rapporto eterosessuale. Per destino o per caso, sua mamma è morta di Aids quando lui aveva soltanto 4 anni. Qualche decennio dopo, nell’ottobre del 2017, Valentino Talluto è stato condannato in primo grado a 24 anni di carcere per il reato di falso e lesioni gravissime, per aver consapevolmente trasmesso il virus dell’Hiv a decine di partner.

Abbiamo letto titoli sensazionalistici e visto trasmissioni televisive a suon di “Botte all’untore!” che hanno ritratto un personaggio somigliante a quelli che, durante la peste di Milano del 1630, furono sospettati di diffondere l’epidemia spalmando unguenti velenosi sulle persone, e quindi perseguitati da popolo e giudici. Naturalmente non era vero e questo unguento nemmeno esisteva; già Manzoni, due secoli dopo, ne faceva un simbolo di suggestioni irrazionali e ignoranza collettiva.

Un altro paio di secoli dopo, il “misterioso e letale” unguento si scopre essere lo sperma. Con l’untore in prima pagina, l’effetto gogna è assicurato. Il mostro lo guardiamo con morbosità perversa: è lì a ricordarci quanto male ci sia nel mondo, e che c’è sempre qualcuno peggiore di noi.
Ma il rischio, in questi casi, è quello di mancare il focus e non fare quel salto di qualità che rende la cronaca una questione sociale e materia di riflessione, soprattutto quando si hanno davanti agli occhi vicende tragiche e controverse come questa. L’aspetto più importante e impressionante di questa storia, è che quasi tutte le persone coinvolte hanno scoperto la propria sieropositività per caso, dopo anni dal momento del contagio; o perché donatrici di sangue o, molto più spesso, perché chiamate dalla Procura o contattate dalle trasmissione Chi l’ha Visto?, che ha lanciato l’allarme all’untore. Alla luce del fatto che a dare una notizia così personale e delicata siano stati giornali e televisioni, si apprende che quasi nessuna delle persone contagiate si era mai fatta un test dell’Hiv nel corso di svariati anni.

Oltre al danno, la beffa più odiosa è che alcune tra queste giovani donne hanno a loro volta contagiato i propri successivi partner, scatenando una reazione a catena.
Questa vicenda è emblematica perché specchio dei maggiori problemi legati all’Hiv. Al di là del piacere voyeuristico di sbirciare nella vita sessuale altrui, che è la lente attraverso cui è stata affrontata dai media nazionali, chiama a una profonda riflessione sociale: quasi nessuno in Italia fa sesso protetto – negli ultimi anni le malattie sessualmente trasmissibili sono aumentate vertiginosamente – e soprattutto non ci si controlla, non ci si testa per l’Hiv dopo aver adottato comportamenti a rischio. Non a caso, il principale serbatoio d’infezione nel nostro Paese è dato da quelle persone che hanno il virus ma non lo sanno.

Sono proprio loro a essere pericolose e rischiare di contagiare gli altri. Eppure la possibilità di entrare a contatto con questa patologia sembrerebbe non riguardarci, e la fotografia che ci viene restituita è quella di un immaginario collettivo rimasto fermo agli anni Ottanta e Novanta, quando contrarre il virus equivaleva a una sentenza di morte per Aids, e a doverla scontare sembrava fossero soprattutto tossicodipendenti e omosessuali. In realtà l’Hiv può colpire chiunque adotti comportamenti a rischio. La drammatica storia di Valentino e delle ragazze coinvolte, alcune giovanissime, mostra in tutta la sua tragicità la voragine culturale ed educativa del nostro Paese. Ci restituisce allo specchio la nostra ignoranza e superficialità, il banale pensiero che queste sono le classiche cose che capitano agli altri e mai a noi; sentenzia il persistere dello stigma, dell’Hiv come vergogna pubblica. Non è un caso se le decine di donne che hanno testimoniato, lo hanno fatto tutte a volto coperto.Hanno un’infezione, non sono colpevoli di alcun reato, eppure non mostrano il volto.

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