Ha partorito e subito dopo ha abbandonata la neonata fra gli scogli dove la piccola è nata di stenti. Il gup del Tribunale di Bari, Giovanni Abbattista, ha condannato alla pena di 14 anni di reclusione la 24enne di Castellana Grotte Lidia Rubino, imputata per l’omicidio volontario pluriaggravato della figlia appena nata.
ll giudice, al termine di un processo celebrato con il rito abbreviato, ha escluso l’aggravante dei futili motivi e ha concesso una ulteriore attenuante per aver riconosciuto il parziale vizio di mente. La neonata fu abbandonata in una spiaggia di Monopoli, ‘Cala Monaci’, all’alba del 12 febbraio e ritrovata sul bagnasciuga da una coppia di turisti tre giorni dopo, il 15 febbraio 2017.
La ragazza, assistita dall’avvocato Nicola Miccolis, dopo circa quattro mesi di detenzione in carcere, dal 29 marzo al 18 luglio dello scorso anno, è attualmente agli arresti domiciliari presso una comunità terapeutica. Nel corso di un incidente probatorio, su richiesta della difesa, è stata sottoposta ad una perizia psichiatrica che ne ha stabilito la semi-infermità mentale. Al tempo del fatto, stando agli accertamenti psichiatrici e tossicologici, aveva un tasso alcolemico oltre la norma e – secondo la perizia psichiatrica – stava vivendo un «momento dissociativo».
Stando alla perizia medico-legale, la bimba, ribattezzata “Chiaraluna”, nata sana al termine della gravidanza, sarebbe morta nel giro di alcune ore anche a causa del freddo e dell’acqua del mare. Le indagini sulla vicenda sono state coordinate dal pm di Bari Giuseppe Dentamaro e delegate agli agenti del Commissariato di Monopoli. Inizialmente era indagato per concorso nell’omicidio il compagno della ragazza, la cui posizione è stata poi archiviata.
“Lidia, ancora oggi, è molto scossa e provata dall’accaduto. E’ profondamente pentita”. A parlare è l’avvocato della 24enne “È evidente che al momento dei fatti ci sia stato un black out, – ha detto il legale – qualcosa che si è verificato e che ha inficiato le capacità cognitive e volitive della ragazza. Lidia, ormai da molti mesi, è agli arresti domiciliari in una comunità terapeutica in cui sta affrontando un importante percorso di recupero”.
“Quello che i processi penali non possono fare è restituire la vita alle vittime, – ha continuato Miccolis – ma quello che dal processo si pretende è una accurata e attenta valutazione di quanto accaduto e delle ragioni che l’hanno determinato. Agli operatori del diritto è richiesto proprio questo, la lucidità e la capacità di non farsi trasportare dai sentimenti e dalle emozioni. Emozioni forti che ormai da tempo travolgono Lidia”. “La sentenza di oggi chiude la prima fase di questo processo. Attendo di conoscere le motivazioni della sentenza, – ha concluso il difensore – ma è certo che ricorreremo in appello”.