A tre anni dal terremoto che ha distrutto Amatrice, Arquata del Tronto e Accumoli causando la morte di 299 persone sono ancora da rimuovere 800mila tonnellate di macerie, quasi 50mila persone sono fuori dalle proprie case. Ottantamila le case danneggiate o distrutte, ma in meno di 3mila sono iniziati i lavori di ricostruzione. Intanto i terremotati incalzano la classe politica: “Noi esistiamo. Scusate se non siamo tutti morti”. Passeggiare per Pretare, frazione di Arquata del Tronto distrutta dal terremoto del 24 agosto 2016, significa fare un viaggio a ritroso nel tempo di tre anni: cumuli di macerie per buona parte ancora a terra e ordinati ai lati delle strade; case sventrate ma ancora tenacemente in piedi e colme di letti, armadi, poltrone, camere di bambini resistite alle intemperie, alle centinaia di scosse di assestamento e al tempo che nel Centro Italia terremotato sembra essersi fermato. Come l’orologio all’esterno della stazione di Bologna bombardata il 2 agosto del 1980 segna da 39 anni le 10 e 25, ad Arquata del Tronto le lancette sono ferme alle 3 e 36 del mattino del 24 agosto 2016, la notte che ha cancellato 299 vite ad Amatrice, Accumoli ed Arquata e decine di altri borghi. La notte che ha disegnato un enorme buco nero nel cuore dell’Italia, un buco che si sarebbe allargato poi il 26 e 30 ottobre 2016 e 17 gennaio 2017 annientando centinaia di paesi, molti dei quali letteralmente distrutti.
A tre anni dal sisma nel cratere – cioè il territorio di 138 comuni tra Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo distrutto o seriamente danneggiato – il senso comune è quello di essere stati abbandonati. Basta entrare in un bar o in un’area SAE per percepire rabbia e sfiducia. “Neppure i politici si ricordano più di noi. Nei loro discorsi in Senato Conte, Salvini e Renzi non hanno mai menzionato il terremoto. Siamo spariti. Non esistiamo più”, dice Francesco Amici, terremotato di Acquasanta Terme. Eppure proprio il cratere è stato a lungo il più grande palcoscenico d’Italia: prima delle elezioni politiche del 4 marzo 2018 Matteo Salvini e Luigi Di Maio avevano scelto i comuni più devastati dai terremoti del 2016 come luogo ideale in cui imbastire la campagna elettorale seguendo un frame narrativo tanto semplice quanto efficace: “I migranti negli hotel con 35 euro al giorno, i terremotati nei container sotto la neve”. Un anno e cinque mesi dopo, e con un “governo del cambiamento” già archiviato e consegnato alla storia, è chiaro ormai a tutti che quelle promesse erano solo spot elettorali. Il tema della ricostruzione è scomparso dall’agenda politica già il 5 marzo del 2018.
Terremoto Centro Italia: ancora 50mila sfollati senza casa
I numeri della ricostruzione forniti dalla Protezione Civile e dalla struttura commissariale facente capo al geologo Pietro Farabollini (e prima di lui a Vasco Errani e Paola De Micheli) sono emblematici. A tre anni di distanza dal 24 agosto 2016, su un totale di 2.509.043 tonnellate di macerie ne rimangono da rimuovere ancora 800mila, cioè quasi un terzo. Nonostante siano trascorsi 36 mesi non sono state ancora consegnate tutte le SAE (soluzione abitative d’emergenza): delle 3.901 ordinate ne sono state consegnate 3.853. 8.108 persone vivono ancora nelle SAE, altre 1.364 in hotel, 792 nei Mapre ( Moduli abitativi prefabbricati rurali emergenziali), 484 in moduli container e 477 in strutture comunali. Altre 38.060 persone percepiscono il contributo di autonoma sistemazione e vivono in affitto lontani dalle loro abitazioni. In totale gli sfollati sono 49.285, 30mila dei quali solo nelle Marche. Quanto alla ricostruzione, quella pubblica non è mai iniziata e per quella privata i cantieri aperti sono pochissimi, su oltre 70mila immobili colpiti e altri 10mila ancora da periziare. I tempi per esaminare le pratiche sono biblici: se ne attendono 79.454, ma le richieste di fondi pubblici presentate sono state appena 7.942, il 10 per cento; quelle accolte sono 2.788. Di questo passo occorreranno decenni per ultimare la ricostruzione, ma allora il rischio è che più nessuno vorrà tornare a vivere nelle aree interne di Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo. Sulla base della stima del danno effettuata dal Dipartimento Protezione Civile sono stati previsti per la ricostruzione 22 miliardi di euro: appena 41 milioni sono però stati erogati ai beneficiari che hanno avviato la progettazione della ristrutturazione delle proprie abitazioni.
Secondo il commissario Farabollini “c’è un solo modo di ricostruire ed è dove la sicurezza dei cittadini è garantita il più possibile e con un rapporto virtuoso costi- benefici, quelli immateriali compresi che non sono secondari per i singoli e le comunità. Abbiamo investito in approfondimenti di indagini ed emanato un’ordinanza per i dissesti ed una per lo studio delle faglie attive e capaci. Se è necessario sacrificare qualcosa a favore della sicurezza in chiave di salvaguardia della vita umana da eventi catastrofici come il terremoto, bisogna avere il coraggio di assumersi la responsabilità anche di scelte impopolari”.
Terremoto Centro Italia: cosa non ha funzionato
A tre anni di distanza dalla prima terribile scossa di terremoto e dopo tre governi e tre commissari straordinari è necessario tracciare un bilancio. Cosa non ha funzionato? Si poteva fare meglio? Secondo i comitati dei terremotati – molti dei quali confluiti in nel coordinamento Terremoto Centro Italia – il principale problema è stato la scarso ascolto della popolazione. Pochissime delle proposte avanzate dal basso sono state accolte, nonostante fossero state sviluppate con il sostegno di consulenze scientifiche (il gruppo di ricerca Emidio Di Treviri) e legali (i giuristi di Alterego Fabbrica dei Diritti). “Nei mesi scorsi abbiamo consegnato le nostre proposte ai rappresentanti del governo chiedendone l’applicazione. Si tratta di idee di buon senso, sviluppate dopo decine di assemblee. In primis crediamo che occorra sburocratizzare ed aumentare il personale degli uffici per l’esame delle pratiche. Fondamentale sarebbe differenziare il cratere per aree di danno. E’ poi necessario sostenere reddito e lavoro, oppure si rischia di ricostruire case che resteranno vuote. Per questo vogliamo l’istituzione di una vera zona franca di medio-lungo periodo per chi lavora nel cratere, in particolare a sostegno delle imprese agricole, degli artigiani e in generale di tutta la filiera agroalimentare. Proponiamo poi l’istituzione di un ‘reddito di cratere’ che rappresenti un’evoluzione del reddito di cittadinanza che così com’è nel cratere finisce per incrementare lo spopolamento”. Anche per le Brigate di Solidarietà Attiva, associazione che – attraverso le pratiche mutualistiche – promuove e sostiene concretamente l’autoorganizzazione delle comunità locali, il problema principale è stata la mancanza di ascolto delle comunità locali. Secondo le BSA, che hanno dapprima consegnato aiuti materiali (cibo, container, roulotte…) a centinaia di terremotati, poi avviato un lavoro sociale e politico volto a costruire esempi virtuosi di resistenza sul territorio (anche attraverso il rilancio delle comunanze agrarie), il tema del tutto ignorato è stato quello sociale: “Oltre alla ricostruzione materiale vanno trattati i temi di lavoro e reddito, che invece sono stati del tutto ignorati. Il rischio è quello di ricostruire case sicure ma vuote”.
Un altro grande interrogativo viene posto dai giuristi di Alterego – Fabbrica dei Diritti che hanno costantemente affiancato i terremotati traducendo e spiegando le decine di ordinanze prodotte da governi e regioni: è possibile – per un paese ad alta vulnerabilità sismica come l’Italia – dotarsi di leggi adeguate che rendano la ricostruzione più veloce? “I terremoti non sono un’emergenza in Italia, paese attraversato da un complesso sistema di faglie che la espone quasi per intero al rischio sismico. Il problema è che ogni sisma è stato sempre gestito con una normazione d’emergenza. Il governo di turno reinventa dall’alto ogni volta la ricetta per mettere a posto le cose, ma ad oggi non esiste una legge quadro che disciplini l’intero ciclo del rischio”, spiega l’avvocato Riccardo Bucci. Occorrerebbe quindi una norma che stabilista in tempo di “pace” responsabilità e procedure per salvare vite umane, garantire immediata assistenza alla popolazione e organizzare una ricostruzione democratica, cioè mediata dal confronto con i cittadini.
Insomma, dopo 36 mesi esatti dalle prime drammatiche scosse di terremoto che hanno cambiato forse per sempre il volto di quattro regioni italiane niente va come dovrebbe e la sensazione, ogni giorno più forte, è che nessuno voglia davvero risolvere i problemi e le inefficienze, che sono molte e si sommano alla rabbia sempre maggiore di chi aveva dato credito alle promesse dei leader politici. Quello del centro Italia sarà però il cantiere più grande d’Europa, una storia troppo grande e importante per essere abbandonata. “Scusate se non siamo tutti morti”, gridano oggi i terremotati, con una provocazione che è anche un grido di dolore e una richiesta di ascolto. Chi avrà il coraggio di affrontare la sfida che lanciano? E chi si assumerà veramente la responsabilità di ricostruire il cuore dell’Italia?